Nello D’Auria sindaco di Gragnano ha postato sui social la riattivazione del Mulino Lo Monaco….
Nello D’Auria sindaco di Gragnano ha postato sui social la riattivazione del Mulino Lo Monaco.
«Completato il circuito idraulico del Mulino Lo Monaco. Permetterà di far girare di nuovo la pala orizzontale del mulino così da far rivivere ai visitatori che si recheranno a Gragnano i momenti in cui era attiva la molitura del grano.» a renderlo noto è il sindaco Nello D’Auria, tramite social network. «Un risultato straordinario, che è il frutto di uno eccezionale lavoro di sinergia e cooperazione e di tanto amore per la nostra terra.» afferma con entusiasmo, «Erano presenti praticamente tutti i volontari che da tempo si prodigano per il recupero dei mulini della nostra valle a Gragnano: Giuseppe Di Massa, Pietro Ingenito, Michele Barbato, Sergio Sicignano, Vittorio Amodio, Giovanni Cesariello e Italo Galizia. Fondamentali sono stati il supporto e la competenza del giovane pastaio Mario Moccia. Un momento di partecipazione che rappresenta un bel preludio alla Festa della Pasta, l’evento più atteso da tutta la comunità gragnanese.» L’evento è in programma l’8, 9 e 10 settembre.
Operazione importante quella del recupero idraulico del Mulino, non sono di valore materiale, ma anche e soprattutto il valore identitario, ove in esso si riconosce un paese e una comunità.
Proponiamo un saggio di Clara Verrazzo e Gaetano Ruocco sulla valle dei Mulini, per meglio inquadrare a 360 ° il valore e l’identità.
Il paesaggio culturale della valle dei mulini di Gragnano. Temi di storia e restauro
Clara Verazzo, Gaetano Ruocco*
Tappa obbligata nel XIX secolo per i viaggiatori del Grand Tour e i pittori paesaggisti della Scuola di Posillipo – da Achille e
Giacinto Gigante a Anton Sminck van Pitloo –, la cosiddetta ‘valle dei mulini’, una stretta depressione tra i monti Lattari, segnata in
profondità dallo scorrere delle acque del torrente Vernotico, è un’oasi verde nel cuore della città di Gragnano1 . Questo locus
amoenus, per lungo tempo dimenticato, deve il suo sviluppo all’epoca alto medievale e al processo di regimentazione delle acque
su aree comunque di più antica frequentazione. Costellata da sorgenti d’acqua di piccola portata, incanalate verso la costa dall’orografia del terreno, la valle deve la sua fortuna proprio alla facilità di captazione delle acque, attribuibile alle limitate imensioni trasversali dei corsi d’acqua a partire dalla sua sommità. Qui la presenza della sorgente principale, detta Forma, rimanda non tanto alla configurazione geomorfologica del sito, quanto al sistema di canali in pietra collegati ad un acquedotto del tutto simile ai modelli descritti da Vitruvio. La locuzione è attestata dal I secolo d.C. e prosegue durante tutto il periodo tardo antico. Solo nell’alto Medioevo viene associata al sistema dei molini in diversi documenti, dai quali è possibile desumere come l’impossibilità di attingere direttamente alle acque del Vernotico avesse spinto alla creazione di un acquedotto, in modo da intercettare le acque nel punto più alto e, sfruttando la giusta pendenza, regimentarne il corso sino a valle.
La contingenza legata alla creazione di questo sistema di condutture, unitamente alla posizione strategica della valle, tra la baia
di Napoli e il territorio amalfitano attraverso il valico di Pino-Agerola, innesca un rapido sviluppo antropico dell’area che ben presto
legherà la sua fama alla macinazione del grano, ponendo le basi per lo sviluppo della futura città della pasta a partire dalla seconda
metà dell’Ottocento. La produzione legata all’attività di molitura avrà grande eco anche grazie a un fitto movimento di penetrazione
dei prodotti, attraverso l’utilizzo delle strutture viaria di matrice romana sviluppate a servizio delle città costiere e dell’entroterra. In
particolare, la presenza di un’antica mulattiera che, risalendo i monti Lattari, metteva in collegamento l’entroterra, attraverso il valico di Agerola, con il versante meridionale della costa, consentirà lo sbocco verso l’importante porto commerciale di Amalfi [fig. 1].
Come in molti esempi similari, il tratto che contraddistingue la storia edilizia dell’area valliva risiede nel rapporto con la realtà
orografica, tanto varia e caratterizzante da determinare un’evidente corrispondenza tra architettura costruita e naturale. La stretta
connessione tra condizioni orografiche e climatiche, strutture economiche e sociali ha prodotto nella valle dei mulini un’architettura
legata alle esigenze del vivere del luogo con le sue risorse, materiali e umane.
L’interesse per il patrimonio della valle dei mulini rientra nel quadro più generale degli studi che da qualche decennio ha coinvolto nuove tendenze nella cultura della conservazione, legando le esigenze di tutela del costruito storico alla difesa dell’ambiente.
Poiché si tratta di una conquista relativamente recente, molto c’è ancora da fare per emanciparsi dalle letture selettive e classificatorie dei numerosi autori locali, a favore di conquiste più aderenti alla realtà materiale dei singoli manufatti e alla successione delle
loro fasi, compresa quella dell’attuale stato di conservazione. A fronte di questo rinnovato interesse, carente risulta, invece, una
mappatura sistematica delle fabbriche, che sia comprensiva di adeguati rilievi, di rappresentazioni cioè all’altezza della loro complessa realtà formale e materiale e tali, quindi, da costituire il discrimine fondamentale rispetto a operazioni di conservazione ed
eventuale valorizzazione. È vero, infatti, che soprattutto le fabbriche più marginali, oggi prevalentemente allo stato di rudere, mancano di fonti certe, se mai queste sono state interrogate. Soprattutto in questi casi il rilievo diventa l’unica possibilità di affidarne la descrizione a una narrazione prevalentemente grafica, a restituzione di compagini uniche e preziose. Strettamente legati alla natura ove sorgono, i mulini idraulici sono manufatti architettonici che rimandano a una cultura costruttiva povera, in termini di materiali e tecniche costruttive, ma non per questo meno meritevole di attenzione e valorizzazione. Per dare conto del complesso sistema costituito dagli insediamenti protoindustriali, dai collegamenti viari e dalle caratteristich e ambientali e geomorfologiche del sito, la ricerca si è orientata sull’elaborazione di un censimento e una catalogazione della rete dei mulini presenti sul territorio di Gragnano, sulla base della cartografia Chiroga del 1784, che dà conto della presenza di acquedotti e molini3. L’obiettivo è la definizione di un programma di recupero e valorizzazione dei manufatti architettonici analizzati, attraverso la conoscenza dei loro caratteri costruttivi, funzionali e delle interrelazioni con il contesto culturale e paesaggistico.
Le prime notizie sui mulini lungo l’alveo del torrente Vernotico risalgono alla seconda metà del XIII secolo, così come testimoniano i due documenti del 1266 e del 1272, relativi al regio assenso per la costruzione di due mulini in flumine Graniani4 . Nella descrizione
dei beni che compongono il feudo concesso da re Ladislao a Martino di Martino, all’inizio del XV secolo, è annoverata la presenza
di «un molino rovinato situato presso il fiume di detta terra nel luogo denominato la Forma»5 . Solo a partire dal 1587, con l’acquisto da parte della famiglia Chiroga dei diritti per lo sfruttamento delle acque presenti nel territorio di Gragnano, si avvia il processo
di lavorazione e produzione della macinatura dei cereali con «macchine da animarsi con l’acqua dell’Imbuto»6 .
Alimentato in parte dalle sorgenti della valle, l’acquedotto era costituito da tre linee, tutte di proprietà dei Chiroga: la principale, proveniente dalle sorgenti dell’Acqua Fredda e delle Bolle, attraversando i diversi borghi e casali di Gragnano, giungeva fino a
Castellammare di Stabia; la secondaria, originata dalla sorgente della Forma, percorreva tutta la valle alimentandone i mulini sino
a giungere all’antico acquedotto della Conceria nel cuore della città, ultimo tratto della linea. I condotti si diramavano su un sistema ad archi a tutto sesto di impianto romano, e, in prossimità dei nuclei urbani, venivano interrati nei cosiddetti cellari tombati. Di questo articolato complesso, in buonaparte abbattuto nella seconda metà dell’Ottocento a seguito della sua dismissione, o inglobato nelle compagini murarie di edifici di recente costruzione, restano oggi pochi lacerti. L’esistenza di tredici molini nella valle è documentata già agli inizi del XVII secolo. Le prime manifatture alimentari vengono, invece, realizzate nella seconda metà dello stesso secolo, a conclusione di operazioni di acquisto che ampliano e consolidano le proprietà di alcune famiglie nobili ed enti ecclesiastici. Dopo appena un secolo, la diffusione dei mulini ad acqua all’interno della valle e su gran parte del territorio gragnanese si raddoppia grazie alla presenza costante di acqua, fino ad arrivare nel 1764 a una produzione di circa due milioni di tomoli di grano all’anno (1.100.000 quintali). L’aumento costante della produzione conduce alla nascita di nuovi stabilimenti, con l’attestazione massima nel periodo risorgimentale, quando si segnalano più di trenta mulini nell’areale gragnanese.
Si tratta di un momento importante per la città di Gragnano, che legherà d’ora in poi il suo sviluppo alla produzione della pasta, grazie proprio alla fitta rete di mulini idraulici ubicati nel suo territorio. Tra il 1843 e il 1847 l’industrializzazione raggiunge
la sua acme, che si protrae fino ai primi anni del XX secolo, quando Gragnano è costretta a fronteggiare una sempre più agguerrita concorrenza. A pochi giorni dallo scoppio della Prima guerra mondiale, i pastifici gragnanesi sperimentano un sistema di lavorazione, sia per la pasta sia per la molitura e la macinazione, con macchinari innovativi. Si assiste così a un boom economico
che, grazie a una fitta rete di esportazioni all’estero, in pochi anni rafforza il mito della pasta di Gragnano in tutto il mondo. Contestualmente, l’eliminazione dei vecchi metodi di lavorazione e produzione conduce all’abbandono dei mulini disseminati lungo
la valle che, dopo decenni di incuria, hanno guadagnato una condizione di ritorno alla natura che non ha però spento le tracce di
palinsesto nascoste nelle loro pieghe e la cultura materiale cui rimandano7 . Significativa ai fini della mappatura dei manufatti protoindustriali, come già accennato, è la planimetria Chiroga del 1784, un preciso rilievo dei casali di Gragnano e del sistema di acquedotti e molini che in quel momento costituivano l’infrastruttura preindustriale della città. Le notizie contenute nella legenda forniscono informazioni sul numero degli opifici idraulici, sulla loro dimensione, su molti dettagli tecnici relativi all’adduzione delle acque sorgive e dei sistemi di collegamento agli acquedotti. Dei 39 opifici lungo i 15,31 chilometri di acquedotto attestati
nel 1784, oggi rimangono solo 23 mulini censiti all’interno del territorio comunale di Gragnano. Molti manufatti attesati nella cartografia settecentesca risultano difficilmente reperibili, sia a causa delle discrepanze tra le denominazioni antiche e quelle contemporanee, sia per l’inaccessibilità di alcune aree [fig. 2]. La tipologia dei mulini rilevati lungo l’alveo del fiume Vernotico,
assimilabile a quella attestata lungo le valli dei monti Lattari, è a ruota orizzontale, cioè senza ingranaggi tra ruota e macina, essendo entrambe montate su di un medesimo asse, in grado di funzionare con portate idriche anche modeste nell’ordine delle decine di litri al secondo, purché l’acqua impatti a grande velocità sulle pale della ruota8 . La parte inferiore della ruota s’immerge in un alveo di notevole portata idrica; se il flusso è lento, la potenza ottenibile viene incrementata adottando una ruota più larga, mentre i giri al minuto della macina possono essere incrementati scegliendo un opportuno rapporto di moltiplicazione per gli ingranaggi tra asse della ruota e asse della macina [fig. 3]. Questi impianti di molitura sono composti dall’edificio-mulino, in cui sono collocate la ruota, la macina e i congegni accessori, e da un complesso di opere idrauliche, volto ad addurre, condizionare e allontanare le acque motrici.
Il funzionamento del mulino dipende direttamente dalle sue opere idrauliche, in particolare dal sistema di derivazione, composto da una traversa in muratura, detta staglio, costruita perpendicolarmente al greto del ruscello. Parte della portata è così deviata verso una delle sponde, da cui perviene alla presa, bocca del canale adduttore, munita di una griglia per bloccare foglie e rametti. I canali, realizzati in muratura, presentano una sezione interna ridotta, in genere di 30 centimetri circa, in relazione al sistema di alimentazione a una o più macine. Importante ai fini della sicurezza e del corretto funzionamento del mulino è la posizione del pozzo, posto almeno a una decina di metri sopra il greto del fiume, in modo da scongiurare, in caso di piene, l’allagamento della struttura. A ciò si aggiunga la possibilità, con un dislivello compreso trai 6 e gli 8 metri, di sfruttare l’energizzazione dell’acqua stessa, raccolta in un pozzo di accumulo a forma di cono rovesciato, profondo 7 metri circa e con un diametro, in sommità tra i 90 e i 120 centimetri e al fondo di 25 centimetri circa. Realizzato con un apparecchio murario tessuto con pezzature lapidee medio-piccole, il pozzo di accumulo è collocato all’interno di una torre a pianta quadrata di 2 x 2 metri, costruita in aderenza all’alloggiamento della ruota idraulica. In questo modo, il fondo-pozzo è in asse con la quota della ruota, o sfalsato di pochi decimetri. Un foro orizzontale nel muro perimetrale del pozzo permette la fuoriuscita del getto di acqua pressurizzata necessario a innescare il funzionamento della ruota stessa. L’acqua, ricadendo dalla ruota, si raccoglie in un catino sottostante in muratura e da qui, attraversando il canale di scarico, viene restituita al fiume oppure deviata al canale di aggiramento, per le tipologie di mulino costituite in un sistema
di rete a cascata con uno o più mulini collocati a valle. Il manufatto edilizio si compone, nella maggior parte dei casi esaminati, di due livelli: il carcerario, in cui è collocata la ruota singola o doppia, e il locale sovrapposto con una o più macine. Il carcerario è
un ambiente di dimensioni ridotte, sia in pianta sia in alzato, con una copertura a volta. L’accesso è garantito dalla presenza di una scala esterna, posta al di sotto del canale di scarico delle acque9 . L’ambiente superiore, di dimensioni maggiori rispetto a quello ipogeo, custodisce la macina fissa e consente la penetrazione della luce attraverso una o due finestre poste sui muri d’ambito. La copertura a botte è, in genere, estradossata, ma non sono rari i casi di lastrico solare esterno. Il sistema meccanico dei mulini idraulici è costituito da una ruota a pale, la cosiddetta ritrecina, in legno di quercia o castagno, disposta orizzontalmente rispetto al piano di calpestio, da cui si distacca con un’altezza contenuta entro poche decine di centimetri. Il fuso, l’asse verticale in castagno che attraversa la volta del carcerario e sbarca al livello superiore, penetra anche il banco di macina e la mola fissa a esso ancorato, detta anche mola sottana. La mola ruotante o soprana è fissata all’albero motore con un incastro amovibile con il puntale di
ferro a testa quadra, il cosiddetto ferro da molino, che rinforza la punta del fuso e una staffa a croce o a farfalla, con foro quadrato al centro, ancorata alla mola. Le due macine hanno un diametro che varia tra 90 e 120 centimetri e uno spessore tra 15 e 30 centimetri, direttamente riferibile alla consistenza del materiale naturale impiegato. Quelle di Gragnano, realizzate in pietra vesuviana, con sezioni sottili, presentano dei solchi radiali sulle facce a contatto della mola, per garantire laspinta del macinato verso l’esterno.
I grani da macinare cadono nell’occhio della tramoggia, un imbuto a piramide rovescia, realizzato in legno e fissato sopra la macina con un’impalcatura lignea. Collegato alla medesima impalcatura, oppure ancorato a una trave sporgente dal muro di fondo, vi è il paranco per sollevare, con un apposito gancio a ragno, la mola soprana nelle fasi di manutenzione. Durante la macinazione, la forza centrifuga generata dalla velocità della rotazione, circa un giro e mezzo al secondo, spinge automaticamente la farina all’esterno, dove alte sponde in legno ne impediscono la dispersione, consentendo, attraverso un fondo inclinato, la raccolta del macinato in un sacco fissato a una bocca munita di ganci. Per il buon funzionamento della macina è fondamentale che la mola soprana sia perfettamente orizzontale, ossia ben bilanciata intorno al suo fuso. Così come per ottenere una buona macinatura è importante mantenere un’adeguata distanza tra le due mole, che vengono alzate o abbassate grazie a un sistema di leve, che agisce sull’intero complesso ruota-fuso-mola rotante [fig. 4]. Il quadro che risulta da questa indagine restituisce un’immagine del patrimonio proto-industriale esemplificativo di una cultura costruttiva fortemente aderente al suolo e alle sue risorse, in cui il colloquio continuo con l’ambiente e il paesaggio diviene il carattere distintivo di una architettura, dove i mulini sembrano disfarsi nel contesto, fino a confondersi con esso e farsene propaggine; un carattere che trova nella continuità tra manufatti e natura un incentivo alla sua ricerca sulla metamorfosi strutturale delle forme. Lo stato di conservazione in cui oggi versa questo patrimonio è segnato drammaticamente dall’abbandono, per le ragioni più varie, che vanno dalle guerre all’avvento della produzione industriale. Il degrado ha colpito innanzitutto le antiche coperture, insidiate da decenni di obsolescenza e incuria. Spesso, dunque, sono solo i muri
d’ambito a restare in piedi, celando all’esterno ambienti diventati luoghi di deposito delle parti crollate e terreno ideale per lo sviluppo della vegetazione. Nei casi più gravi, al crollo delle coperture e al cedimento dei muri hanno fatto riscontro smottamenti di terreni limitrofi e connessi a fenomeni di erosione, soltanto arginati, talvolta, dalla crescita di piante, utili a contrastare l’azione delle acque meteoriche e dei relativi casi di gelività, risalita capillare, infiltrazione. Rispetto alle tante istanze che ogni manufatto avanza, il restauro non può che porsi in maniera altrettanto variegata. Se è l’abbandono il dramma vero del patrimonio proto-industriale gragnanese, e l’abbandono significa assenza di uso, e, quindi, di attenzione e di manutenzione, la prima azione non può che essere la revoca attuabile nel contesto di programmi di rifunzionalizzazione protratti nel tempo. Al di fuori di questi programmi, ogni intervento è destinato a rimanere inefficace: lo dimostrano gli sforzi di molte amministrazioni, passate e recenti, di sistemare ruderi, consolidare, reintegrare lacune murarie che però, in mancanza di operazioni consapevoli di restauro preventivo, non sono riuscite a garantire, con l’incolumità dei manufatti, anche quella del loro ambiente. Il discorso chiama in causa problemi di politica culturale, innanzitutto, miranti a individuare i problemi specifici e a chiarire l’obiettivo del restauro, dando per scontata l’insufficienza di operazioni puntuali e la necessità di progetti, invece, estesi a livello urbano e territoriale e consapevoli del forte connubio, nell’areale di Gragnano, tra architettura e paesaggio. Nel caso dei mulini, come in tutti quelli analoghi, emergono difficoltà notevoli nella conservazione e valorizzazione, perché è chiaro che le fabbriche residue vivono in simbiosi con i contesti naturali e paesaggistici che ne hanno garantito l’impianto e la sopravvivenza fino all’avvento della produzione industriale. In questi esempi, la funzione museale sembra essere quella ideale per garantire nuova vita ai reperti, ma è chiaro che tale funzione può essere applicata solo ad alcuni episodi, integrando gli altri in una rete a fruizione guidata e integrata con la conservazione degli aspetti paesaggistici. Si tratta, in altre parole, di comprendere questi manufatti all’interno di una pianificazione paesaggistica attuabile a più livelli, dinamica e multiscalare: l’unica in grado, forse, di cogliere i mutamenti in atto e governarli, sapendo che sono tanto più complessi quanto più storicizzato il paesaggio di riferimento. Solo in questo modo è possibile passare dalla formula statica del catalogo a quella dinamica dell’itinerario, e riassegnare al territorio il ruolo di contenitore di realtà complesse, con la rete dei suoi percorsi intesa non solo e non tanto come appoggio di monumenti, ma essa stessa elemento caratterizzante e identitario. Gli interventi specifici sulle fabbriche vanno, invece, calibrati sulle circostanze contingenti: nel caso di fabbriche ridotte a rudere, che maggiormente reclamano operazioni tempestive atte a reinserirle in nuovi circuiti figurativi e d’uso, si tende a optare per l’esclusione di ipotesi ricostruttive a favore del mantenimento dello stato attuale, messo naturalmente in sicurezza e valorizzato rispetto al contesto e al paesaggio circostante. Emerge da questo discorso tutta la questione del restauro del rudere, nell’intento, da più parti condiviso, di farne autentica risorsa del territorio, assurto al ruolo di paesaggio in tutte le sue molteplici componenti umane e materiali. Altro tema importante è la compatibilità con nuove funzioni, che consentano la conservazione e la valorizzazione del manufatto architettonico stesso. L’ipotesi più auspicabile contempla la creazione di un parco lineare, in cui le singole fabbriche ospitino attività didattiche e di ricerca legate al tema sia dell’acqua sia delle materie prime per una corretta alimentazione. Si riuscirebbe così a frenare malintesi rinnovamenti funzionali e a bloccare l’edificazione selvaggia che da diversi decenni attanaglia questi luoghi. A ciò si aggiunga la salvaguardia della flora e la bonifica del fiume, oggetto di continui sversamenti abusivi.
Fonte : PositanoNews.it